
L'Idra a Tre Teste!
La leggenda della mafia.
a cura di Ninni Raimondi________________________________________________________________________________________
  
Il Prefetto di ferro
_______________________________________________________________________________________________________________
Se la guerra del 1915-1918 arginò temporaneamente l’offensiva della mafia, con il rientro dei reduci la situazione si aggravò.
Tra il 1919 e il 1924, furono commessi ben duemilacinquecento omicidi. I giornali tornarono a tuonare contro il governo e Mussolini, che nel frattempo aveva preso in mano le redini del potere, volle fare un viaggio in Sicilia per rendersi conto, personalmente, di ciò che stava succedendo.
Durante la visita a Piana dei Greci, fu affrontato dal Sindaco, cavalier Francesco Cuccia, che lo rimproverò perché si era portata la scorta.
"Voscenza non ha bisogno di tutti questi sbirri. Non ha niente da temere finché sarà con me!".
"Chi è quest’uomo così potente?", domandò più tardi Mussolini ai suoi accompagnatori. E, quando questi gli risposero che era il più noto capo mafia della zona, egli lo spedì, immediatamente, al confino.
Poi, convocò il prefetto Cesare Mori e gli affidò l’incarico di "ripulire" l’Isola.
Valendosi dei poteri straordinari conferitigli dal Duce, Mori si scatenò.
Fece rastrellare le Madonie, sgominando le più feroci bande che le infestavano; arrestò “pezzi da novanta” come Nicolò Andaloro e Giovanni Dino; mandò al soggiorno obbligato migliaia di persone e sbatté in galera, di nuovo, don Vito Cascio Ferro, facendolo condannare per correità morale in duplice omicidio e spingendolo, poi, a confessare di aver ucciso anche Joe Petrosino.
Il 1° gennaio del 1926, Mori mise in stato d’assedio il paese di Gangi, antico regno della mafia del feudo. Dopo aver fatto interrompere tutte le vie di comunicazione, mandò in giro un banditore che, facendo rullare a intermittenza un vecchio tamburo, gridava: "Curriti, curriti, curriti! E' 'u prefetto Mori ca vi parra [ … ] intimo a tutti i latitanti di costituirsi altrimenti saranno passati per le armi". La minaccia sortì l’effetto voluto e i "picciotti" si arresero. L’ultimo a lasciare il paese con le mani alzate, fu Gaetano Ferrarello, patriarca delle Madonie, che, però, la sera stessa si uccise nel carcere dell’Ucciardone, gettandosi dalla tromba delle scale.
Sulla scia di questo successo, Mori intensificò l’azione.
Così, la Mafia, poté tirare il fiato e negli anni successivi, medicò le proprie ferite in attesa di riemergere.
Ma i giornali non ne parlarono, perché distratti da un avvenimento più grave: l’approssimarsi della seconda Guerra Mondiale.

  
Lo sbarco alleato in Sicilia
_______________________________________________________________________________________________________________
L’Onorata società, naturalmente, superò anche questa bufera.
Anzi la sfruttò per riconquistare un’autorità che ormai sembrava avere perduto.
Gli alleati, infatti, dovettero ricorrere al suo aiuto per sbarcare in Sicilia senza danni.
Il comandante Haffenden, del Naval Intelligence, si rivolse al gangster Lucky Luciano, al secolo Salvatore Lucania, chiedendogli di "spianare la strada" alle truppe. E Lucky, in cambio della libertà (era detenuto in una prigione federale), mandò un messaggio a don Calogero Vizzini, il più noto mafioso di Villalba, invitandolo a mettersi a disposizione di questi "amici degli amici".
Il giorno dopo l’invasione, un aereo paracadutò, in paese, un fazzoletto bianco con una "elle" nera ricamata e la mafia mobilitò tutti i suoi uomini.
La mattina del 10 luglio 1943, quando i primi marines misero piede sulla spiaggia, trovarono numerosi picciotti ad aspettarli e con loro marciarono trionfalmente su Palermo.
Don Calò guidò personalmente due colonne motorizzate e Vito genovese, un altro boss espulso qualche anno prima dagli USA, divenne il braccio destro di Charles Poletti, capo del governo militare alleato in Sicilia.
Grazie a queste benemerenze, nella sola provincia di Palermo, sessantadue comuni su settantasei finirono in mano a sindaci legati all’onorata società: dal famigerato Genco Russo a don Calò Vizzini.
Con lo sbarco delle forze anglo-americane riprese fiato, anche, il M.I.S – Movimento per l’Indipendenza della Sicilia, una formazione politica della destra agraria e conservatrice, diretta da Andrea Finocchiaro Aprile e da Concetto Gallo, che propugnava l’idea di una secessione isolana dall’Italia da fare con l’appoggio degli Stati uniti e della Gran Bretagna.

  
Salvatore Giuliano
_______________________________________________________________________________________________________________
Proprio in quel periodo, nelle Madonie, cominciò a brillare la stella di un giovanissimo fuorilegge: Salvatore Giuliano.
Era un "cane sciolto" che se ne infischiava della mafia e i vecchi "pezzi da novanta" lo detestavano. Tuttavia non esitarono ad agganciarlo quando il M.I.S., nel quale erano confluiti, chiese "braccia armate di lupara" da sacrificare alla causa.
Gli promisero perfino l’amnistia e perché no, un posto di ministro nel futuro Stato siciliano.
Ma appena l’ubriacatura separatista svanì, lo scaricarono brutalmente accelerando la sua fine.
Dopo la morte di Giuliano, la mafia tornò ad essere padrona del campo.
Parallelamente, andò affievolendosi la miseria, situazione ideale per il reclutamento di nuove leve del crimine né l’onorata società conobbe una crisi di vocazioni.
Per tornare sulla cresta dell’onda, i più famosi boss palermitani dovettero cercare altri sbocchi alle loro tradizionali attività, in modo da ottenere redditi maggiori e di conseguenza, pagare "salari" più allettanti.
I picciotti abbandonarono il mulo per la fuoriserie, la trazzera per l’autostrada, le guardianìe e le tangenti per il controllo del traffico degli stupefacenti, un business interessantissimo che era stato importato, da poco tempo, dagli Stati Uniti.

  
La mafia raggiunge la città
_______________________________________________________________________________________________________________
La mafia, insomma, lasciò la campagna e scese in città.
La decisione di questi cambiamenti fu presa il 12 Marzo del 1956, all’Hotel delle Palme di Palermo, alla presenza di alcuni "ambasciatori" di Cosa Nostra.
L’incarico di gestire la "Droga S.p.A." fu affidato ad un "uomo di rispetto" di Salemi che aveva numerosi corrispondenti oltre oceano.
Delle spedizioni, si occupò un imprenditore di Castellammare di Stabia che escogitò un trucco diabolico per mandare la merce in America: La nascose dentro il marmo delle pietre tombali.
Con i soldi della droga, l’onorata società s’industrializzò e sostituì il mitra alla lupara.
Sequestri, prostituzione ed edilizia entrarono, così, nelle sue sfere d’influenza.
I protagonisti della Palermo nera di quegli anni furono i cugini Greco e i fratelli La Barbera. Ma la "torta" era troppo allettante.
Saltarono fuori altri boss: Da Luciano Leggio, detto Liggio, boss di Corleone e Gerlando Alberti, detto "zu' Paccarè" perla sua aria paciosa e dimessa. Sotto la loro guida "illuminata", il mercato prosperò.
Liggio si trasferì a Milano per gestire la società che aveva ereditato da Joe Adonis, il più "sinistro" gangster del mondo, come lo definì il Senatore statunitense William Kefauver. Qualche mese dopo, fu raggiunto da Gerlando Alberti.
Proprio durante il loro regno gli omicidi si moltiplicarono.
Caddero boss e gregari, personaggi di primo piano e semplici portaborse.
Al grido di "ammazzane uno per educarne cento" (tristemente noto perché adottato dai terroristi delle Brigate Rosse), furono eliminati giornalisti, come Muro De Mauro e magistrati come Pietro Scaglione e investigatori come il tenente colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo.

  
La mafia oggi
_______________________________________________________________________________________________________________
La cattura di Liggio, però, non sbloccò questa mattanza, che riprese, anzi, con maggior vigore. Nell’estate del 1979, Alberti tornò in Sicilia per impiantarvi alcune raffinerie di eroina che gli avrebbero permesso di centuplicare i guadagni.
Ma la sua decisione non fu delle più felici, perché la polizia riuscì ad acciuffarlo.
"Se mi aveste lasciato fare", brontolò quando i poliziotti gli misero le manette, "avrei inondato il mondo di roba".
A perderlo furono i numerosi errori commessi dai soci che si era scelto a Palermo. Erano degli "stràscinafacenne", come si dice in gergo per indicare la gente da poco.
Avevano sbagliato anche le operazioni più elementari.
Basti pensare all’organizzazione del finto sequestro del finanziere Michele Sindona, gestito poi in modo così maldestro da attirare l’attenzione degli inquirenti.
La svolta alle indagini la diede il vice questore Boris Giuliano, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile e il procuratore Gaetano Costa, tutti e tre, poi, puntualmente assassinati dalla mafia e per Gerlando Alberti cominciò il conto alla rovescia.
Il suo arresto, però, non interruppe la lotta: mitra e lupare ricominciarono quasi subito a crepitare con un’impressionante regolarità e la media dei morti ammazzati riprese a salire vertiginosamente.
Le esecuzioni iniziarono con Stefano Bontade, dei Bontade di Villa Grazia, poi nella lotta fra bande successe di tutto.
In un anno, o poco più, nel cosiddetto "triangolo della morte", a cavallo tra i comuni di Bagheria, Casteldaccia e Altavilla Milicia, furono giustiziati un’ottantina di boss.
E il peggio doveva ancora venire.
"la posta in palio è altissima", ammisero gli investigatori. "Ci sono in ballo venticinquemiliardi di narco-lire che toccheranno alla banda che riuscirà ad aggiudicarsi il controllo mondiale del traffico di stupefacenti. Per non parlare dei 1.300 miliardi di pubblico denaro, già stanziati, per la ricostruzione del centro storico di Palermo, ancora devastato dai bombardamenti dell’ultima guerra. Una somma più che sufficiente per scatenare gli appetiti di chiunque".
Gli "esperti di cose mafiose" precisarono che dietro questi delitti c’era uno squadrone della morte, manovrato da misterioso superclan. Un gruppo cresciuto sulle disgrazie delle veccie famiglie di cui facevano parte "gli" orfani di Luciano Liggio e Totò Greco dei famigerati Greco di Ciaculli.
Sarebbero stati proprio loro a far uccidere anche il Presidente della regione Siciliana Piersanti Mattarella e il deputato comunista Pio La Torre, due uomini scomodi, che si battevano per moralizzare la vita pubblica isolana e volevano mettere un freno all’onorata società.
Dall’America i boss di Cosa Nostra approvarono questi delitti e mandò, la sua paterna benedizione, anche Don Masino Buscetta, il "mafioso più mafioso al mondo", che da Rio de Janeiro, dove si era rifugiato, continuava a guardare la Sicilia con interessata nostalgia.
A lui si era interessato, anche, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, inviato a Palermo nell’Aprile del 1982 con l’incarico di superprefetto antimafia.
Partendo, proprio, da Don Masino Buscetta e dai suoi loschi affari, il generale Dalla Chiesa aveva chiesto e ottenuto, dal Comune di Palermo, l’elenco degli imprenditori che, negli ultimi tre anni, si erano aggiudicati i più lucrosi appalti.
"Per incastrare i mafiosi", diceva, "bisogna battere la strada delle indagini patrimoniali, costringendo a uscire allo scoperto i titolari di certi patrimoni fioriti dal nulla".
Poche ore dopo questa dichiarazione era già morto, assassinato a colpi di "Kalashnikov" insieme con la giovanissima moglie Emanuela Setti Carraro (che aveva sposato in seconde nozze appena due mesi prima) e con il fido autista Domenico Russo.
In soli centoventi giorni, tanto era durata la sua missione, Dalla Chiesa era riuscito a guardare dove non era possibile azzardarsi a farlo col risultato di finire sulla lista nera dell’onorata società.
I suoi assassini l’hanno ammazzato a scopo "terapeutico" per stroncare, inesorabilmente, sul nascere, il diffondersi di un virus che in certa Sicilia non aveva mai potuto allignare, ma che adesso sta diventando una vera epidemia: quello della legalità!

|