
L'Idra a Tre Teste!
La leggenda della mafia.
a cura di Ninni Raimondi________________________________________________________________________________________
 
Perché è nata
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Gualterio suggerì anche una serie di provvedimenti da prendere per estirpare la mala pianta della delinquenza, ma le autorità centrali non vollero tenerne conto e piano piano, la situazione degenerò.
Palermo era uno sfacelo.
All’ombra delle ville settecentesche dei "Gattopardi" e delle magnifiche chiese barocche si moltiplicavano le catapecchie, prive di qualsiasi servizio igienico.
La gente viveva come meglio poteva.
Le fogne erano costituite da canali scoperti che scorrevano al centro delle vie e i rifiuti erano accatastati agli incroci.
Le malattie erano considerate un "incidente inevitabile".
Molto abitanti di Palma di Montechiaro, per esempio, avevano contratto l’ameba, a causa delle montagne d'immondizia lasciate a essiccare al sole. La miseria regnava su tutta la città. Nel ghetto della Vuccirìa, l’antico mercato, i bambini imparavano subito a coniugare i verbi dell’onorata società.
Cominciavano a delinquere facendo qualche furtarello, poi s'impratichivano nell’uso della lupara e ben presto prestavano giuramento di fedeltà alla mafia.
"La causa più profonda che permise il persistere e il rinvigorirsi di questo fenomeno", scrivono Rosario Poma ed Enzo Perrone nel loro La mafia, nonni e nipoti, "fu senza dubbio la dissipazione che lo Stato fece dei beni ecclesiastici.
In un Paese di proletari crudelmente oppressi dai proprietari, l'alienazione di quella massa di beni - che dalla cacciata dei saraceni in poi non avevano mai subito alcuna confisca – ammontante a circa 190 mila ettari e valutati circa un miliardo, avrebbe potuto essere una pacifica e benefica rivoluzione sociale, se i terreni fossero finiti in mano alla classe rurale, come avrebbe voluto Garibaldi fin dal 1860.
Invece, nulla di tutto ciò.
Lo Stato fu defraudato di quell’ingente ricchezza poiché, salvo rarissime eccezioni, i beni ecclesiastici caddero nelle mani dei grossi affittuari e proprietari, avidi e corrotti, i quali, dominando con la mafia, la violenza e l’intimidazione nelle aste, riuscirono ad accaparrarseli a prezzi irrisori".

 
Le consorterie mafiose
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Così la rabbia degli sfruttati aumentò e la mafia poté sguazzarci dentro, al grido di "l’unione fa la forza", atteggiandosi a lega per fronteggiare collettivamente la prepotenza dei "signori".
Nacquero, in questo modo, le consorterie degli "Stuppagghiara" (stoppai) di Monreale, dei "Fratuzzi" (fratellini) di Bagheria e degli "Schagghiuni" (denti accuminati) di Enna.
Il rituale per esservi ammessi era molto spettacolare.
L'aspirante mafioso era portato in un luogo isolato ("Dove non avrebbe potuto vederlo neppure Dio") e "battezzato" con un cerimoniale carico di simbolismi che si terminava con il giuramento di fedeltà:
"Io giuro, dinanzi a questa società, di essere fedele con i miei compagni, di non tradirli mai e di adempiere tutti i miei doveri, se necessario anche con il mio sangue".
Da quel momento la sua parola d’ordine diventava: "Quando la Mamma comanda, il picciotto ubbidiente esegue".
Da qui la definizione di "mammasantissima" per il capo società, quello che oggi viene chiamato Boss.
Le gerarchie erano rigidissime: C’era il contabile, cui erano affidati i fondi dell’organizzazione; subito dopo veniva il mastro di giornata, una specie di sergente che controllava l’ordinaria amministrazione e si preoccupava del buon andamento del lavoro degli associati; infine seguivano i "picciotti di sgarro" o di sangue, ossia i manovali del crimine.
L’attività di queste consorterie iniziò con le guardiane abusive e della protezione del bestiame.
I mafiosi cominciarono a battere le campagne imponendo l’assunzione di operai di loro fiducia a contadini e a proprietari che non ne avevano alcun bisogno: "Avete delle terre fertilissime e delle splendide bestie", dicevano con un sorrisetto sarcastico. "Se volete conservarle sempre così, fareste bene a prendere con voi uno dei nostri guardiani. Vi tornerà molto utile, con i malintenzionati che girano da queste parti".
Se questo "pacato consiglio" era accettato, non succedeva niente. Altrimenti erano guai: le piante erano tagliate, i campi devastati e gli animali uccisi.
I Fratuzzi di Bagheria si spinsero, anche, più in là. Obbligarono gli agricoltori a vendere i loro prodotti a persone inserite nel giro mafioso a prezzi, inutile dirlo, di assoluta concorrenza.
Visto il successo di queste iniziative, i "pezzi da novanta" dell’onorata società (come venivano chiamati i capi delle varie fratellanze), si riunirono per stabilire di comune accordo le regole di comportamento:
"D’ora in avanti dovranno pagare tutti", disse uno degli Stuppagghiara. "Chi vorrà lavorare tranquillamente sarà costretto a fàrinni vagnari 'u pizzu" (farci bagnare il becco, o pagare una tangente)”.
La prima sortita in questo settore si ebbe nel febbraio del 1869, quando alcuni ingegneri continentali, che non avevano voluto aderire alla richiesta, furono presi a fucilate lungo la linea ferroviaria calabro - sicula, nei pressi di Canicattì.
"Attendo ragguagli", scrisse il ministro degli interni al prefetto di Agrigento. Ma questi, disinvoltamente, minimizzò l’episodio attribuendolo a "gruppi di bravacci".
Nei mesi successivi, però, le sparatorie si susseguirono e il governo dovette intervenire organizzando una grossa "bonifica" del territorio. Ma neanche questo bastò a placare l’arroganza della mafia che, anzi, arrivò a transazioni con il potere costituito.
Questi compromessi fecero dilagare il fenomeno in tutta l’Isola, sì che i latitanti salirono alla cifra record di 1.300 unità (400 nella sola Palermo). La repressione fu inevitabile, ma la mafia fedele a quell’antico proverbio che dice: "calati juncu 'ca passa 'a china", (abbassati giunco finché non è passata la piena), riuscì a superare indenne anche questa prova.
Parecchi "pezzi da novanta" furono inviati al confino o finirono in galera (come Antonio Leone, Filippone e Gulino), ma la loro forzata assenza non provocò grandi sconquassi poiché, nel frattempo, i posti lasciati vacanti erano stati rapidamente occupati da nuovi rincalzi.
Abbagliato da questi effimeri successi, anche il parlamento sottovalutò la reale portata del problema.
"La mafia non esiste", sentenziò un deputato romano, "è un focolaio isolato di delinquenza, simile a quello delle squadracce di Ravenna o dei pugnalatori di Parma", due bande che, a quell’epoca, infestavano il Nord dell’Italia.
A smentirlo provvidero subito due deputati di destra, Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti, presentando le conclusioni di una loro inchiesta privata che dimostrava tesi diametralmente opposte. Ma furono tacciati di "ingiustificato pessimismo" e tutto proseguì come prima. Si tornò a parlare di questo cancro che rodeva (e rode) la Sicilia soltanto nel 1893, quando fu ucciso il marchese Emanuele Notarbartolo, ex Presidente del Banco di Sicilia. Poche sere prima di morire, si era scagliato contro l’onorata società, accusandola di essere la causa di tutti i mali dell’Isola e i picciotti lo avevano ripagato, assassinandolo, con ventisette pugnalate.
Il suo cadavere fu ritrovato in uno scompartimento di prima classe del treno Termini - Palermo, circostanza, questa, che indusse la polizia a incriminare due ferrovieri.
Ma, al processo, il figlio della vittima li scagionò, attribuendo il ruolo di mandante dell’omicidio a un parlamentare, L’On. Palizzolo, eletto con i voti dei mafiosi di Caccamo e Villabbate.

 
Mafia e Politica
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Vennero, così, alla luce strani legami tra mafia e politica.
Il deputato fu arrestato e condannato a trent’anni di reclusione. Ma la Cassazione annullò la sentenza restituendogli la libertà per insufficienza di prove. Un provvedimento che segnò la prima sconfitta per i cittadini onesti.
La legge sulla costrizione militare obbligatoria (che favorì la diserzione dei giovani e quindi, la costituzione di nuove bande di fuori legge) e l’avvento di Giovanni Giolitti ai vertici della politica nazionale, contribuirono a far rifiorire l’onorata società, che da questi provvedimenti trasse linfa vitale. Giolitti sacrificò ancor di più la politica meridionalista e fece progredire il settentrione a spese del mezzogiorno.
Sotto il suo governo, i capimafia furono inondati di favori che, naturalmente, restituirono, trasformandoli in voti per far eleggere i candidati del suo partito.
L’intera Sicilia occidentale finì nelle mani dei più famosi "mammasantissima", che approfittarono dell’occasione per ampliare la loro attività, allungando tentacoli fino agli Stati uniti, dove trovarono terreno fertile tra i tanti connazionali che vi erano emigrati.
La colonia più numerosa viveva a New York, in un ghetto del basso East Side, ribattezzato appunto Little Italy.

 
Cosa Nostra
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Gli Americani li chiamavano spregiativamente "Dago" (deformazione di Diego) e li accusavano di saper maneggiare il coltello.
In realtà, non dovevano essere poi così bravi, perché finivano sempre per buscarle dagli Irlandesi e dagli ebrei, autentici teppisti che spadroneggiavano sulla città con le bande dei Forty Thieves (I Quaranta ladroni) e degli Shirt Tails (Scamiciati).
Fu proprio alimentando la disperazione di questo branco di emarginati, che gli emissari dell’onorata società riuscirono a gettare le basi per costruire quella pericolosissima associazione criminale ancora oggi dominante la scena della malavita mondiale con il nome di Cosa nostra: un termine coniato, per caso, da un boss palermitano, che vedendosi presentare uno sconosciuto, aveva chiesto: "Cu è chistu?", (Chi è quest’uomo?) e si era sentito rispondere: "N’amicu. Cosa nostra è!".
Inizialmente, quest’associazione per delinquere, si chiamava "mano nera" e operava con metodi brutali, ma altrettanto efficaci.
Tutti quelli che avevano qualcosa da perdere (operai, impiegati e commercianti) erano invitati a versare una tassa mensile, che gli esattori della gang incassavano a titolo di "protezione".
Chi non pagava finiva all’ospedale con le ossa rotte e al secondo rifiuto, andava direttamente al cimitero.
Come accadde a Gennarino Improta, assassinato con sette coltellate sulla porta della propria gelateria.

 
Arriva Petrosino
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La polizia nuovayorchese, per la verità, non diede eccessiva importanza a questo delitto che fu frettolosamente archiviato. Ma, quando gli uomini della "mano nera" cominciarono a uscire sempre più frequentemente dai confini di Little Italy, le autorità cittadine indissero una riunione, al termine della quale fu deciso di prendere provvedimenti.
Le indagini furono affidate a un poliziotto italo-americano, il tenente Joseph Petrosino.
Tallonando, da vicino, alcuni pregiudicati siciliani, Petrosino (che in gioventù aveva fatto il giornalaio e il netturbino) scoprì diversi particolari interessanti.
Innanzitutto, stabilì che i suoi compatrioti avevano preso in prestito il simbolo della mano mera da un gruppo anarchico dei Balcani e poi ne arrivò a identificare il capo.
Era un certo Giuseppe Morello, originario di Corleone.
Indagando in questa direzione, l’ufficiale di polizia italo-americano intuì che l’organizzazione aveva stretto legami con la Sicilia e allora partì per Palermo. Ma la notizia fu pubblicata dai giornali e morello poté avvisare gli amici che vivevano nell’isola, incaricandoli di preparare a Petrosino una “calorosa” accoglienza.
Il più solerte a rispondere all’invito fu Don Vito Cascio ferro, un boss che proprio Petrosino aveva costretto a fuggire dall’America.
Poche sere dopo, il 12 marzo del 1909, il poliziotto fu abbattuto con tre revolverate in piazza marina, a Palermo, davanti alla chiesa di S. Giuseppe dei Miracoli.
La sua morte coincise con un grosso rilancio dell’onorata società che, specialmente negli States, cominciò a dedicarsi alle corse dei cavalli, al racket della prostituzione, al contrabbando e al gioco d’azzardo clandestino.
Pressato dall’opinione pubblica, che reclamava a gran voce la testa dell’assassino del leggendario detective italo-americano, il questore di Palermo fece arrestare Don Vito cascio ferro. Ma le prove raccolte contro di lui si sciolsero come neve al sole e così i giudici dovettero proscioglierlo in istruttoria.

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