
Salvatore Giuliano
L'Idra a Tre Teste!
La leggenda della mafia.
Inserto speciale: Salvatore Giuliano, il Re di Montelepre.
a cura di Ninni Raimondi__________________________________________________________________________________

La leggenda del re di Montelepre
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E' il più famoso fuorilegge italiano, l'unico che si sia conquistato un posto nella storia del crimine.
Sulla facciata della casa in cui nacque, il 16 novembre 1922, c'è perfino una targa che ricorda l'avvenimento.
Quel giorno segnò anche un'altra tappa importante della vita nazionale: mentre Salvatore Giuliano veniva al mondo, Benito Mussolini pronunciava il suo primo discorso alla Camera con l'incarico di capo del Governo.
Ma a Montelepre nessuna rammenta questo particolare e tutte le attenzioni sono per "Turiddu".


Era un bambino tranquillo!
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Proprio lassù, in cima al paese, c’è la scuola, dove frequentò le prime tre classi della scuola elementare (insegnanti la Signorina Ferrara e i maestri Provenzano e Purpura). Dalle finestre si vedono i campi che suo padre comprò con i risparmi accumulati in America nei quali lui trascorse gran parte della propria infanzia. “Era un bambino tranquillo”, ha raccontato il parroco don Giuseppe Di Bella. “La sua assiduità alle funzioni mi aveva fatto pensare che volesse diventare sacerdote”.
Invece, Salvatore Giuliano aveva altro per la testa e lo dimostrò a sedici anni, quando spaccò il cranio a un compagno con una stecca da biliardo. Crescendo divenne sempre più violento e attaccabrighe. Nel 1939, riuscì a farsi assumere come manovale, ma litigò quasi subito col caposquadra e fu licenziato. A ventidue anni era ancora senza un mestiere, o meglio ne aveva tanti, ma nessuno di cui potesse vantarsi. In quel periodo cominciò a dedicarsi anche alla borsa nera, all’”intrallazzu”, come lo chiamava. “Smetterò quando avrò fatto molti soldi”, diceva.
Ma la mattina del 2 novembre 1943, mentre stava andando in città con un mulo carico di farina, fu fermato da una pattuglia di carabinieri. Un altro, al suo posto, se la sarebbe cavata con una multa, ma lui no. Lui era una testa calda, come tutti i nati sotto il segno dello scorpione (da Lutero a Goering) e mise mano alla pistola uccidendo uno dei militi. La sera stessa accese il suo primo bivacco da fuorilegge, sul monte Saganà.
Nel giro di poche settimane, Salvatore radunò un branco di disperati come lui, che somigliavano più ai “peones” di Pancho Villa che ai gangster. Poi, spinto forse dal desiderio di indossare un’uniforme, si avvicinò ai separatisti, un gruppo di conservatori agrari legati alla Casa Savoia che volevano staccare l’isola dall’Italia. Nel luglio del 1945, s’incontrò con uno dei capi di questo movimento, il catanese Concetto Gallo, che lo nominò colonnello dell’E.V.I.S. (Esercito Volontario per l’Indipendenza Siciliana).
Gaspare Pisciotta, l’infido cugino che poi lo ucciderà, ottenne il grado di tenente. Nel settembre dello stesso anno, però, il governo Parri fece arrestare i leader del separatismo e Giuliano restò da solo a combattere. Ma non c’era niente di eroico nelle sue imprese, anche se per atteggiarsi a bandito sociale, regalava la terra ai contadini, dopo averla, ovviamente, rubata ai legittimi proprietari.


Un’impudenza senza limiti
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Con il passare del tempo, la sua tracotanza superò ogni limite. Diede l’assalto ad alcune caserme di carabinieri e per finanziarsi, rapì diversi possidenti. Quando l’allora ministro degli interni Romita mise una taglia di mezzo milione di lire sulla sua testa, gli rispose tappezzando la Sicilia di manifesti sui quali era scritto: “ Io, Salvatore Giuliano, prometto due milioni di lire a chi mi porterà Romita vivo o morto”!
Per evitare che gli abitanti della zona potessero rifornirlo di viveri e acqua, Montelepre fu messa in stato d’assedio. Ma lui continuò a muoversi indisturbato.
“Ho un antidoto contro i traditori”, diceva a coloro che lo invitavano a una maggiore prudenza. Questo “antidoto” era costituito da un’oncia di piombo. Non a caso Gavin Maxwell, nel suo libro “Dai nemici mi guardo io”, gli attribuì la fucilazione di un ragazzo di diciassette anni, accusato di essere una spia.
“La vittima fu costretta a dire le preghiere”, scrisse, “e morì dopo averlo udito esclamare: Ti uccido in nome di Dio e della Sicilia … “.
Il 27 aprile, Turiddu, accompagnato dal fedele cane “Zizzì”, (che fiutava un carabiniere a cento metri di distanza) intervenne al matrimonio della sorella Mariannina con Pasquale Sciortino, uno dei membri della sua banda. Quattro giorni dopo, il 1° Maggio, portò i suoi uomini a Portella della Ginestra, dove erano convenuti duemila contadini per la festa del lavoro e ordinò di aprire il fuoco. I morti furono undici, i feriti cinquantasei.
“Turiddu non voleva fare quella strage”, spiegherà più tardi la sorella Mariannina. “Fu uno sbaglio, una disgrazia. Salvatore era andato a Portella della Ginestra con un solo scopo: impedire al deputato comunista Girolamo Li Causi di prendere la parola. Quando si rese conto che il parlamentare non era ancora arrivato, fece sparare qualche raffica in aria, tanto per intimorire la gente e disperderla. Ma uno dei picciotti indirizzò male i colpi (o, forse, fu pagato da qualcuno per farlo) e ci fu il massacro”.
Nei mesi successivi, Giuliano intensificò le azioni, macchiandosi di altri delitti. All’inizio del 1949, nella speranza di dare un significato politico al proprio comportamento, scrisse al presidente americano Harry Truman, annunciandogli di aver creato un movimento che si sarebbe battuto per l’annessione della Sicilia agli Stati Uniti. Ma, nonostante questo gesto, la sua stella cominciò a offuscarsi e non bastarono “per riaccenderla” neppure gli appassionati reportage di Maria Tecla Cyliacus, una giornalista svedese che si era innamorata di lui. Proprio in quel periodo, Salvatore commise il più grosso passo falso della sua carriera (fece ammazzare “cinque pezzi da novanta” dell’onorata società) e la mafia, fino ad allora neutrale, decise di aiutare i carabinieri a toglierlo di mezzo. La prima mossa fu di creargli il vuoto attorno, mandando in galera i suoi fidi.
Caddero, così, nella rete Frank Mannino e Nunzio Badalamenti. Il loro arresto fu come una mazzata per il “re di Montelepre”, che si affrettò subito a cambiare aria, in attesa di poter espatriare negli USA.


Ucciso a tradimento
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La sera del 4 luglio 1950, “Turiddu” si recò a casa dell’unico mafioso di cui ancora si fidasse: Frank Coppola, rappresentante italiano di Cosa Nostra. C’era anche Gaspare Pisciotta (che, nel frattempo, si era messo d’accordo con il colonnello dei carabinieri Luca). Alla fine della cena, Giuliano si addormentò di schianto e Pisciotta poté caricarlo in macchina e portarlo a Castelvetrano, nell’abitazione di un certo De Maria, detto “l’avvocaticchio”, dove lo uccise sparandogli a tradimento. Le autorità fornirono una versione “addomesticata” dell’accaduto (“Il bandito è stato ammazzato nel corso di un conflitto a fuoco durati quarantacinque minuti”), ma furono smentite da uno dei più attenti cronisti italiani dell’epoca, Tommaso Besozzi, che, in quell’occasione, scrisse: “Giuliano è morto nel sonno, senza nemmeno accorgersene. Egli dormiva bocconi, coprendosi la testa con le braccia. Pisciotta, che era riuscito a mettergli delle gocce di narcotico nel caffè, gli si avvicinò in camicia, a piedi scalzi, tenendo la pistola dietro la schiena."
Tremava.
"Il primo colpo, diretto alla nuca, colpì Turiddu alle spalle; il secondo sotto l’ascella”.
Pisciotta sperava che le autorità lo ricompensassero per il tradimento con la libertà, ma finì lo stesso in galera. Al processo di Viterbo indicò i presunti mandanti della strage di Portella della Ginestra. Disse che "il lavoro” era stato commissionato a Giuliano dagli onorevoli Giovanni Alliata di Montereale, Leone Marchesano e Bernardo Mattarella, i primi due monarchici e il terzo democristiano, ma non riuscì a fornire nessuna prova valida.
“Le prove sono nei diari di Turiddu”, spiegò con rabbia. “Lì dentro ci sono anche gli intrighi del ministro degli interni Scelba e quelli del capo della polizia. In appello ve lo dimostrerò”.
Non poté mantenere la promessa. Il 9 febbraio del 1954, infatti, Pisciotta morì nella sua cella, all’Ucciardone di Palermo, stroncato da venti milligrammi di stricnina che qualcuno gli aveva messo nel caffè.
Lo seppellirono con i suoi segreti, mentre i famosi diari passavano di mano in mano. Per qualche tempo li custodì Maddalena Lo Giudice, la ragazza che sosteneva di aver dato un erede al re di Montelepre. Poi se ne perse ogni traccia.
“Chi li ha fatti sparire”, disse Mariannina Giuliano al giornalista Enzo Magrì, “voleva che la verità non venisse fuori”.
Come dire tutto il Parlamento di allora.
Il mistero continua …

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