
L'omicidio Notarbartolo!
L'espresso|Mafia!
Mafia.
Il primo delitto eccellente: l’omicidio Notarbartolo
a cura di Ninni Raimondi_______________________________________________________________________
Per la prima volta l’opinione pubblica sentì parlare di “mafia”, termine nuovo, associato al territorio siciliano e che vedeva nell’atteggiamento omertoso degli imputati, tenuto durante tutto il corso del processo, un carattere peculiare.
1° febbraio 1893 su un treno proveniente da Messina, nel tratto fra Termini Imerese e Trabia, veniva ucciso con ventisette coltellate il Marchese Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, politico siciliano, uomo eccellente per onestà e abilità amministrativa. Nonostante l’arma del delitto, usata per lo più nei delitti passionali, la “voce pubblica” ipotizzò un delitto di mafia. Il procuratore generale Sighele, inoltre, parlò di “alta mafia” nella relazione al guardasigilli del 26 febbraio 1894.
Per cercare di capire questo fatto di sangue che, per la prima volta, nel 1894 aveva visto come protagonista un uomo politico, è necessario chiedersi chi fosse Notarbartolo e quale fosse il suo ruolo nel contesto storico politico siciliano e italiano. Marchese di San Giovanni, discendente dei duchi di Villarosa, Emanuele Notarbartolo aderì da giovane alla causa garibaldina unendosi ai Mille e si distinse nelle battaglie di Milazzo e nell’occupazione di Messina. Nel periodo in cui fu sindaco di Palermo, dal 1873 al 1876, trasformò la città in un grande cantiere completando il mercato degli Aragonesi, la copertura del Politeama; diede il via all’ammodernamento della rete viaria e al collegamento della stazione centrale con il porto; posò la prima pietra per la realizzazione del teatro Massimo. Durante il suo mandato combatté il fenomeno della corruzione nelle dogane. Risanò le finanze comunali attirandosi, per questo, molti nemici i quali cercarono in ogni modo di isolarlo, mettendolo nella condizione di dover lasciare l’incarico.
Dal 1876 al 1890 fu presidente del Banco di Sicilia. La situazione del Banco di Sicilia all’arrivo di Notarbartolo era disastrosa: l’istituto si trovava quasi sull’orlo del fallimento derivante da speculazioni azzardate e un’amministrazione a dir poco avventurosa, la quale aveva permesso l’utilizzo agli speculatori di un capitale di otto milioni e ottocento mila lire e una riserva metallica di tredici milioni. Per risanare l’istituto Notarbartolo optò per un regime di austerità, invitando, da un lato, i direttori delle sedi a far rientrare i clienti più scoperti e consentire crediti solo ai titoli protetti da solide garanzie e, dall’altro, denunciando i nomi degli speculatori all’allora Ministro dell’agricoltura Micieli. La strategia ebbe in ben quattro anni ottimi risultati. Allo stesso tempo apportò modifiche allo statuto dell’istituto in modo da eliminare le componenti politiche in favore di quelle essenzialmente commerciali. Questo inasprì ancora di più gli animi dei suoi nemici al punto da ordinarne l’omicidio. Il delitto fu eseguito da due uomini, armati rispettivamente di pugnale triangolare e coltello a lama larga a doppio taglio con il manico d’osso.
Le prime indagini si concentrarono subito sul conduttore del treno, Giuseppe Carollo, il quale fu arrestato immediatamente dopo l’omicidio dalla polizia ferroviaria. Questi, incorso in varie contraddizioni fin dal primo interrogatorio, fu ritenuto il maggiore indiziato. Ma già agli inizi dell’estate dello stesso anno si assistette ad una clamorosa rivelazione ad opera del carabiniere Giuseppe Garrito, il quale dichiarò di essere venuto a conoscenza di un brindisi a favore della morte di Notarbartolo avvenuto nella tenuta La Montagnola, di proprietà dell’on. Palizzolo, brindisi tenuto da un gruppo di mafiosi. Un successivo rapporto dei carabinieri indicava come esecutore materiale Giuseppe Fontana, autore di almeno venti omicidi dei quali era stato assolto per insufficienza di prove. Questi, “intimo” di Palizzolo, era il capo della cosca di Villabate, che a quei tempi contava oltre 240 affiliati, dei quali almeno 24 avevano brindato a La Montagnola. Gli indizi raccolti non furono ritenuti sufficienti dal Tribunale di Palermo che emise una condanna di assoluzione nei confronti di tutti gli imputati, senza sentire neppure come teste il Palizzolo.
Due anni più tardi, nel 1895 un detenuto, Augusto Bartolani, dichiarò sotto giuramento che responsabili del delitto Notarbartolo erano il ferroviere Carollo e il killer Fontana. Tali dichiarazioni indussero la magistratura di Palermo a riaprire il caso, ma anche stavolta il Fontana fu assolto per insufficienza di prove, mentre Carollo e Baruffi, anch’egli ferroviere, furono rinviati a giudizio. Il figlio della vittima, Leopoldo, il quale si era sempre battuto per ottenere giustizia, riuscì a mobilitare l’opinione pubblica, in particolare Colajanni e De Felice Giuffrida, e, costituendosi parte civile, ottenne il rinvio del processo a Milano per legittima suspicione. Leopoldo Notarbartolo denunciò in tribunale la dilagante corruzione del Banco di Sicilia e i suoi sospetti su Raffaele Palizzolo. Con don Palizzolo, “u Cignu”, come fu detto, il marchese Notarbartolo si era più volte scontrato in passato, per aver cercato di ostacolarne le spregiudicate operazioni finanziarie di cui l’onorevole si era reso autore. Le carte processuali dimostrano in maniera copiosa che la mano omicida fu mafiosa e che il Palizzolo era un bravo “guanto giallo” sempre in ottimi e intimi rapporti con i mafiosi. L’istruttoria, infatti, evidenziò vecchi sodalizi fra il deputato parlamentare siciliano e la malavita palermitana e trapanese, a favore della quale egli si era prodigato più volte ottenendo scarcerazioni e riduzioni delle pene, al fine di conquistarne il sostegno elettorale. Il processo di Milano, inoltre, evidenziò un sistema di corruzione generale che coinvolgeva le istituzioni dello Stato. Divennero in tal senso imputati la mafia e le istituzioni statali presenti in Sicilia. Per la prima volta l’opinione pubblica sentì parlare di “mafia”, termine nuovo, associato al territorio siciliano e che vedeva nell’atteggiamento omertoso degli imputati, tenuto durante tutto il corso del processo, un carattere peculiare. Il processo di Milano si concluse con la condanna solo degli autori materiali del delitto.
Il vero processo a carico di Palizzolo si svolse dinnanzi alla Corte d’Assise di Bologna nell’autunno 1901, dopo che l’anno precedente era giunta l’autorizzazione a procedere da parte del Parlamento nazionale con 230 voti favorevoli e soltanto 18 contrari. Palizzolo era diventato “l’onorevole padrino”, il simbolo dei connubi fra mafia e politica. Dalla Corte bolognese Palizzolo fu condannato a trenta anni di reclusione insieme a Fontana, mentre Garufi e gli altri imputati furono assolti.
Il clima di generale indignazione e di superficiale classificazione nei confronti della Sicilia, che si era instaurato durante i processi portò all’esplosione di vive reazioni di protesta da parte dei siciliani, ma anche di autorevoli intellettuali fra cui Pitrè e De Roberto. Essi, infatti, costituirono un Comitato pro-Sicilia per riscattare l’isola da tali infamie. Quale potè essere il motivo di una simile scelta? Essi, in realtà, volevano riscattare la Sicilia da quell’onta mafiosa che già da processo di Milano era stata attribuita a quel territorio, volevano evitare che il termine “mafia” potesse connotare tutti i siciliani, anche i siciliani onesti. Tali proteste, unite all’interessamento da parte di Cosa Nostra della vicenda Palizzolo, portarono alla inattuazione della sentenza bolognese, la quale venne portata in Cassazione e poi definitivamente annullata con il rinvio alla Corte di Assise di Firenze.
Ritorna a Palermo, su una nave, come fosse quasi un trionfo Raffaele Palizzolo, onorevole e consigliere d’amministrazione del Banco di Sicilia, il quale, dopo essersi arricchito con la liquidità dei risparmiatori; esser stato condannato per l’omicidio di colui che era stato preposto all’istituto di credito per risanarne la situazione patrimoniale, viene assolto e acclamato dal popolo siciliano, che preferì lasciare un delitto insoluto piuttosto che essere tacciato come un "popolo di mafiosi".

Considerazioni
L'On. Raffaele Palizzolo "era anch'egli, come Emanuele Notarbartolo, un esponente della Destra e uomo di spicco"?
Non erano amici di partito, anzi! Il Marchese Notarbartolo venne eletto sindaco di Palermo nel 1874 con i voti di una coalizione che comprendeva la destra liberale e i progressisti. Nel 1876 cade la Destra storica a Roma e di conseguenza, qualche mese dopo, a Palermo la giunta Notarbartolo. Il nuovo capo del governo era Depretis: leader di una Sinistra tormentata al suo interno da continue scissioni che lo costringeranno a ricorrere a molti compromessi con i suoi avversari in nome di una politica "trasformista", che Notarbartolo non approvava.
A questo punto è necessario sottolineare: "Il concetto di partiti di destra e partiti di sinistra, così come si intendono ai nostri giorni, [...] sono assolutamente lontani da quel momento storico". La politica era diversa, però. Quel governo ricordava, tanto, quello della passata legislatura condotta dall'On. Presidente Prof. Romano Prodi.
Emanuele Notarbartolo si considerava un liberal conservatore e detestava i compromessi del politicismo. Per questo motivo, forse, non si occupò più di politica direttamente e venne dirottato dal partito verso una carriera amministrativa nel Banco di Sicilia. Emanuele Nortarbartolo rimaneva un esponente di destra ed era entrato nel Banco di Sicilia proprio quando i suoi avversari politici avevano raggiunto il potere, dopo 16 lunghi anni. Il Consiglio generale dell'Istituto era composto da rappresentanti nominati dal Comune, dalla Provincia e anche direttamente dal Governo: la maggioranza era di uomini della Sinistra (dell'epoca ovviamente!), uomini con cui Emanuele Notarbartolo doveva lavorare! A causa di contrasti con questi "furbetti del quartierino", o come li chiamava lui "i politicisti", il direttore generale (il Marchese Notarbartolo) venne rapito e i suoi sequestratori furono catturati in una tenuta a Villabate, proprietà di un membro di questo consiglio generale, un sostenitore della sinistra di Depretis. Un uomo che doveva ricevere dei favori da quel Governo e che per questo riuscì ad occupare una poltrona nel Consiglio generale dell'Istituto: quest'uomo era Raffaele Palizzolo.
Le Storie, purtroppo, si ripetono perchè vengono dimenticate! La sinistra dei nostri giorni affonda le sue radici in questa storia così lontana. La sinistra italiana inizia, in questo modo, la sua ascesa al potere, accettando e/o promuovendo a compromessi con uomini come Palizzolo per occupare, così, le poltrone del potere. Ad oggi sembra che, questa politica, continui lungo "l'antica strada".
Certamente all'epoca del delitto, 1° febbraio 1893, la cosiddetta Destra storica non esisteva più essendosi liquefatta, dal 1876 in poi, in quella nefasta pratica politica chiamata trasformismo e adottata da Depretis. In quegli anni il governo, che proprio dal maggio 1892 al dicembre 1893 aveva visto il breve intermezzo del primo governo Giolitti, era tenuto saldamente in mano da Francesco Crispi che, da uomo della cosiddetta sinistra storica (ex mazziniano, aveva, tra l'altro, insieme a Rosolino Pilo, fatto pressioni su Garibaldi per convincerlo ad intervenire nel sud Italia con quella che, successivamente, si chiamerà "la spedizione dei Mille"), era successivamente passato su posizioni più vicine al cosiddetto partito di corte, costituitosi attorno alla figura e all'opera del re Umberto I.
Il governo di Crispi, detto anche "dittatura crispina", era da lui condotto con mano energica - soprattutto nei confronti delle cosiddette classi subalterne - come Primo Ministro (e reggente, ad interim, il Ministero degli Interni e il Ministero degli Esteri), fu contraddistinto da posizioni interventiste a difesa degli interessi dei latifondisti e degli imprenditori. L'On. Raffaele Palizzolo era "deputato e da sempre fedele sostenitore di governi di qualsiasi raggruppamento".
In quel periodo "il raggruppamento", appunto, era quello crispino.
I concetti di partiti di destra e partiti di sinistra, così come si intendono ai nostri giorni, a causa della legge che riservava il suffragio alle sole classi socialmente ricche (suffragio per censo), sono assolutamente lontani da quel momento storico. Il suffragio per gli uomini sarà legge nel 1914 e per uomini e donne, solo, nel 1946.


Note biografiche
(Palermo 23 febbraio 1834 - Termini Imerese 1 febbraio 1893)
Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, apparteneva alla famiglia dei principi di Sciara, ramo dei marchesi di San Giovanni, prestigiosa famiglia artistocratica palermitana, rimanendo, ben presto, orfano di entrambi i genitori.
Cresciuto in Sicilia, visse molto tempo all'estero e segnatamente a Parigi, Londra e Bruxelles. Rientrato in Italia si stabilì a Firenze, dove fece amicizia con il principe di Trabia, con il principe di Scalea, con Michele Amari e con Mariano Stabile, personaggi chiave della futura vita politica palermitana. Con Francesco Lanza di Scalea militò, nel 1859, nell'esercito piemontese e partecipò, sia pure marginalmente, all'impresa dei Mille.
Conobbe la prigione e dopo molte vicissitudini rientrò a Palermo, sposò Marianna Merlo, si dimise da ufficiale e si diede alla politica.
Militò tra i moderati di destra guidati dal sindaco di Palermo, Antonio Starrabba di Rudinì, che lo volle tra i suoi assessori. Nel 1869 fondò e diresse il “Corriere siciliano”, dalla cui direzione si dimise perché invitato ad entrare nel consiglio di amministrazione dell'Ospedale di Palermo. Successivamente ne divenne presidente, migliorandone le strutture, raddoppiando i posti letto e risanandone le disastrate finanze.
Tra le sue opere si ricordano: la posa della prima pietra del Teatro Massimo; l'inizio dei lavori per il prolungamento della via Libertà da piazza Alberico Gentili fino a villa Pajno; l'inizio deii lavori di costruzione del cimitero dei Rotoli e del nuovo porto di Palermo. Tutto questo in due soli giorni.
Il 30 Settembre (Sindaco che, in sole 48 ore, era riuscito a muovere l'enorme macchina delle riforme cittadine, con fermezza e tempestività) gli venne offerta, con nomina immediata, la carica di direttore generale del Banco di Sicilia, che amministrò con oculatezza, onestà e competenza. Istituì i concorsi fra le società operaie di mutuo soccorso; aiutò la cassa dei piccoli prestiti per gli operai; sviluppò la cassa nazionale di assicurazione contro gli infortuni degli operai sul lavoro; creò le cucine economiche durante l'epidemia di colera del 1885.
Nel 1882 il marchese fu sequestrato per un breve periodo e rilasciato dietro pagamento di un fortissimo riscatto. Lasciò la direzione del Banco nel 1890. Rimasto nell'ombra per un breve periodo, tornò alla ribalta con delle rivelazioni che coinvolgevano il capomafia di Caccamo e deputato nazionale On.Raffaele Palizzolo e altre personalità della politica palermitana.
Il 1 febbraio 1893, lungo la tratta ferroviaria Termini Imerese-Trabia, venne ucciso con 27 colpi di pugnale da Matteo Filippello e Giuseppe Fontana.
Il suo fu il primo delitto eccellente compiuto dalla mafia. Attualmente è ricordato da un busto marmoreo, opera dello scultore Antonio Ugo, posto nell'atrio del palazzo delle Finanze, in corso Vittorio Emanuele a Palermo, allora sede del Banco di Sicilia.

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