
Le Radici della Rabbia
Un Viaggio tra la disperazione e l'orgoglio di vivere


Per i diritti "umani" nei territori palestinesi.
da Gaza.
Recentemente ad un numero sempre maggiore di cittadini d’origine palestinese ed in possesso di passaporto
estero è stato negato l'accesso d’entrata ai territori (Striscia di Gaza) oltre confini obbligati d’accesso
israeliani. Il numero è veramente grande: Manager di rilevanza internazionale, uomini d'affari, coniugi e figli di palestinesi
residenti nei territori occupati della Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est.
Le ONG locali insieme al Centro Israelo-Palestinese per la Ricerca e L'Informazione ( IPCRI) hanno,
quindi, deciso di lanciare un appello per il Diritto d’Ingresso e Rientro nei territori occupati.
A metà del corrente mese "Il Centro" pur di porre fine alla politica discriminatoria israeliana congela
visti, ha indetto una conferenza stampa alla presenza di settanta giornalisti, attivisti di parte, osservatori
internazionali e membri dei corpi diplomatici presenti in Israele e Palestina. Sono stati invitati anche alcuni
funzionari di governo israeliani per un confronto ma, di questi ultimi, nessuno si è presentato. Lo scopo dell'
incontro era quello di far impegnare i dirigenti politici israeliani su questi temi scottanti, alla
presenza di qualificati rappresentanti esteri.
Un portavoce del consolato degli Stati Uniti d'America ha riconosciuto che l'organo diplomatico stesso era
informato della politica di "congelamento dei visti d’entrata" e che la "querelle" era stata sollevata
ai massimi livelli.
Questa politica nega l'ingresso a "nazionalità estere" (inclusi palestinesi con passaporti di altre nazionalità o
comunque riconosciute d’origine palestinese) che vogliono risiedere nei territori. Gli israeliani sostengono che,
tutto questo, è dovuto al fatto che i cittadini stranieri sarebbero obbligati, preventivamente, a richiedere ed
ottenere un permesso con la qualifica di "visitatori". Il vero risultato è che, tali permessi, sono stati rilasciati
rarissimamente nel corso dell'ultimo anno. Oggi è diventato difficilissimo entrare in Palestina, anche per coloro che
vi vogliono soggiornare a vario titolo e per brevissimo tempo!
Molte persone munite di regolare passaporto estero, sono tagliate fuori dalle proprie famiglie,
amici, proprietà ed in alcuni casi dal lavoro. I più colpiti sono i cittadini di nazionalità estera, sposati a coloro
che sono forniti di un documento identificativo palestinese, i quali devono attenersi alle disposizioni del visto
turistico di tre mesi. Il Governo Israeliano, infatti, non rilascia residenze permanenti a quei soggetti di ogni ordine
e grado che desiderino vivere a Gaza.
Sin dall'inizio della seconda intifada, nel settembre del 2000, Israele ha smesso di accettare richieste palestinesi
per la ricongiunzione familiare sia in Cisgiordania, sia a Gaza per un controllo più diretto della demografia
palestinese.
Secondo Humanity International, è stata praticata questa metodologia, a fasi alterne, dal 1967 e ora ha
un sovraccarico pari a circa 120.000 richieste che il Governo Israeliano si rifiuta di prendere in esame.
La legale rappresentante di questa campagna, Anita Abdullah, riferisce della questione accennando alla natura politica
del "congelamento" e dell' immediato bisogno di trovare una soluzione che combatta la metodologia in sé ,
che generalizza molto spesso quei casi "individuali e discriminanti" quali, ad esempio, l'appartenenza a gruppi terroristici,
che vanno ostacolati qualunque sia il colore di appartenenza!
Ma non tutti sono terroristi, però!
Il noto uomo d'affari palestinese Zahi Khouri (Presidente della National Beverage Company) ha riferito delle
ramificazioni nella politica del "congelamento d'ingresso", sulle comunità imprenditrici palestinesi e ha fatto
un appello alle missioni estere, presenti in Israele, affinché pongano fine a questa condotta di chiusura.
L'IPCRI ha, quindi, formulato una richiesta ai vari rappresentanti diplomatici accreditati, così come al Governo
Israeliano, del seguente tenore:
1) Il riconoscimento del Diritto dei cittadini palestinesi, in possesso di un regolare documento d'identità,
a risiedere insieme ai propri coniugi, figli, genitori, tutori che non sono in possesso di tale documento, nei
territori palestinesi identificati con il nome convenzionale di "Striscia di Gaza".
2) Garantire, permanentemente, il diritto di "visita e assistenza" ai coniugi ed ai membri della propria famiglia
in possesso di regolare documento d'identità nei Territori Palestinesi.
3) Garantire il diritto di visita ai cittadini di nazionalità estera, (incluso quelli palestinesi muniti di regolare
passaporto o ad inverso, cittadini stranieri d’origine palestinese, naturalizzati) includendo, così, professionisti,
osservatori internazionali, membri delle Organizzazioni non Governative a carattere umanitario, nei territori occupati
senza alcuna discriminazione d’origine etnica e religiosa.
4) Il riconoscimento, del principio (Sancito dall'ONU) sull'autodeterminazione dei Popoli, con la cessazione del
controllo israeliano, nella striscia di Gaza, dello sviluppo economico, educativo, sanitario e della società civile
palestinese, attraverso il diniego all'ingresso a tutti quei soggetti sia privati, sia sovrannazionali, che intendano
contribuire allo sviluppo, fattivo, palestinese.
L'appello lanciato rileva come l'attuazione di "tutto questo" costituisca l'ennesima
azione unilaterale del Governo Israeliano, minacciando, così, qualsiasi processo di pace compreso la stabilità e la prosperità dell'intera regione.
La drammatica ironia di questa politica è che, il "negare" l'accesso palestinese alle proprie
strutture familiari e risorse umane, si pone in netta opposizione con la comunità internazionale, Israele inclusa, circa
tutte quelle richieste, già formulate all'Autorità Palestinese, per creare una società più democratica, moderna, trasparente,
affidabile e produttiva nella regione. Ad oggi Israele considera più di sessantamila palestinesi nella striscia di Gaza,
come residenti illegali, secondo quanto riportato dal Jerusalem Legal Aid and Human Rights Center (JLAC).
Molte di queste persone vengono detenute e deportate se intercettate nei checkpoint israeliani.
Nei passati mesi Israele ha, senza alcun preavviso, negato il rientro a cittadini residenti da anni e legalmente nei
territori occupati palestinesi sia da soli, sia con le famiglie (coniugi e figli), sulla base di "Visti turistici",
ai quali era stata rinnovata la possibilità d'ingresso, grazie alla partenza fisica ed il successivo rientro,
così come richiesto!
Queste persone vengono, adesso, bloccate in Egitto e Giordania o rimpatriate nei paesi di
provenienza; separate dalle loro famiglie, lavoro, proprietà grazie ad un netto rifiuto al "rinnovo" dei pur motivati
"Visti d'Ingresso". Così come per altri cittadini si palesa la preoccupazione di non voler partire, per paura di dover
affrontare la stessa sorte. I rappresentanti dei servizi consolari dei paesi, i cui cittadini sono stati rimpatriati,
nonostante la comprensione del problema umanitario, sembrano impossibilitati a confrontarsi per
risolvere tale crisi.
Nonostante esista un Trattato d’Amicizia, Collaborazione, Commercio e Navigazione siglato 1954 (ed ancora in vigore)
tra lo Stato d'Israele e gli Stati Uniti d'America, per permettere ai cittadini d’entrambe le parti di entrare nei rispettivi
territori, di viaggiare liberamente, di risiedere nei luoghi da loro scelti ecc. ecc., il governo Israeliano continua,
pervicacemente, a discriminare tutti quei cittadini americani di origine palestinese, riservando loro un trattamento speciale e
rendendo ristrette le possibilità di viaggio nei e dentro i territori israeliani, compresi quelli sotto il controllo
diretto militare.
"I cittadini americani d’origine palestinese vengono considerati, dalle Autorità Israeliane, come residenti
in Cisgiordania o di Gaza, esclusivamente se è stato loro rilasciato un documento d'identità palestinese o se, in quanto
minorenni, sono stati registrati in entrambi i documenti d'identità palestinesi dei genitori. A queste persone è richiesto,
espressamente, di ottenere un passaporto palestinese valido, prima ancora che ne sia permessa l'entrata"[... ne consegue
che la presenza di un "regolare passaporto" rilasciato dalle autorità statunitensi, nello,
specifico, non abbia validità .... n.d.r.] (US Consular
Information Sheet).
Sono migliaia i cittadini Giordani ai quali sono stati, sistematicamente, negati il visto d'ingresso nell'anno corrente,
da parte dell'Ambasciata israeliana, per poter visitare i territori occupati, mentre i "turisti" israeliani continuano
ad aver garantito il "Visto" per il Regno di Giordania. Israele ha sospeso le procedure di ricongiunzione familiare per
i palestinesi, residenti nei territori occupati, sposati con cittadini d’altri paesi poco dopo lo scoppio della seconda
intifada, verso la fine del 2000. Le procedure sono state irrigidite e allo stato attuale funzionano ad "intermittenza"
.
Come già citato, ci sono, ad oggi più di sessantamila richieste formali di ricongiungimento familiare nella
"Lista d’attesa" ufficiale del Ministero degli Affari Civili palestinese.
In realtà è dato intendere che questa rigida politica serve a combattere la minaccia demografica nella striscia di Gaza,
inclusa Gerusalemme Est.
Una disposizione legislativa finale, approvata dallo Knesset (il Parlamento Israeliano) nel 1983 e tuttora in vigore,
recita: " ... omissis ... per ridurre, il più possibile, l'approvazione delle richieste di ricongiungimento
familiare in quanto motivo
d’immigrazione nell'area" ... (Fonte: Israeli Human Rights NGO).
Una recente legge israeliana (Luglio 2005) nega la cittadinanza, la residenza permanente e/o lo status di residente
temporaneo in Israele e Gerusalemme Est ai coniugi di israeliani dei territori palestinesi ed ai loro figli, se nati
nei territori occupati (striscia di Gaza). Questa legge, chiamata "Nationality and Entry into Israel Law", riguarda decine
di migliaia di palestinesi sia in Israele, sia nella striscia di Gaza, sia in Cisgiordania.
E' da ricordare che già, nel 1995, il Ministro degli Interni Israeliano modificò l'interpretazione della legge del
Ritorno in Patria e riguardante i "Diritti" del nuovo "immigrato" israeliano che si applica anche al coniuge di un
ebreo, ai figli e nipoti di un ebreo (section 4A of the Law of Return), in modo tale da non essere più applicabile ai
coniugi non ebrei di cittadini israeliani.
Osservatori locali sono fermamente convinti che Israele stia irrigidendo la politica del "diniego d'ingresso e rientro"
(inclusi palestinesi con passaporti esteri o cittadini esteri con adeguati permessi palestinesi) nella striscia di Gaza
e Cisgiordania al fine di poter raggiungere i seguenti obiettivi politici:
Isolare la popolazione palestinese;
perpetrare il controllo demografico a favore della popolazione ebraica ed infine punire la popolazione, sia al livello
personale, sia nello sviluppo sociale come ritorsione sui recenti risultati elettorali.
In molti casi questa politica può significare la deportazione.
Molti di quelli cui è stato negato il "Diritto d’Entrata" sono di fatto residenti nella striscia di Gaza o in
Cisgiordania (per motivi familiari o professionali).
Ai cittadini "non regolari", ovvero, a quelli cui è negato il visto d'ingresso (sia che entrino per la prima
volta, sia che rientrino) è stato comunicato che era condizione "necessaria" il munirsi di un "permesso speciale" al fine
di certificare la "provenienza certa".
Nonostante queste direttive d'indirizzo e suggerite (in alcuni casi imposte) con il concerto delle Diplomazie
"riconosciute", tutti quei cittadini che si sono rivolti ai consolati israeliani nei propri paesi [Nel Regno di Giordania,
per esempio, è praticamente impossibile, entrarvi fisicamente. n.d.r.], scoprono che "non esiste alcun documento o
permesso speciale che certifichi una provenienza certa" in quanto non previsto da alcun ordinamento giuridico
israeliano!
Molti coniugi i cui bambini, mogli o mariti sono ora bloccati fuori dal paese, si sono appellati al Ministero
Palestinese degli Affari Civili o all'Ufficio Distrettuale di Coordinamento a Ramallah, ma senza risultato alcuno:
il Governo Israeliano, a tutt'oggi, non risponde causa impegni governativi "pressanti".
Il coniuge a cui è stato negato l''ingresso, molto spesso, è la prima risorsa della famiglia
il cui lavoro e/o attività
si trovano, proprio, a Gaza.
Il peso per la sopravvivenza è davvero grande.


La decisione israeliana
da Gaza.
La decisione era nell’aria da giorni.
Era addirittura stata preannunciata come una delle opzioni possibili dal ministro
degli esteri israeliano Tzipi Livni quando, prima del capodanno ebraico, un razzo Qassam era caduto su di un campo di
addestramento reclute, ad appena un chilometro di distanza dal confine di Gaza. C’erano stati 69 soldati coinvolti,
una ventina con ferite più o meno gravi, causate dal fatto che il razzo era caduto in piena notte sulla tenda adibita
a mensa, accanto alle tende-dormitorio. Allora, Tzipi Livni aveva detto che la risposta di Israele verso Hamas e Gaza
sarebbe stata presa dopo Rosh Hashana, forse domenica.
E che tra le alternative in gioco c’era, appunto, anche il taglio
dei rifornimenti di luce e gas verso la Striscia. Nessuno, però, immaginava che alla chiusura dei rubinetti (parziale,
per il momento) di elettricità e carburante Israele abbinasse un passo politico così definitivo.
Gaza, governata da Hamas, è da ieri una "entità ostile" per Tel Aviv. Una decisione presa all’unanimità dal gabinetto
di sicurezza israeliano, poche ore prima dell’arrivo a Gerusalemme di Condoleeza Rice, sulla cui visita già pesavano
gli ostacoli sempre più alti per un risultato sostanzioso alla conferenza di pace di Washington. Il segretario di stato
americano si è trovato, così, a commentare una decisione di alto significato politico, senza averne prima discusso né
con gli israeliani né, soprattutto, con la parte palestinese con la quale si sta trattando un’intesa di pace.
Il risultato è stato che la Rice, nella conferenza stampa con la sua omologa Livni, ha sostenuto il governo di Tel
Aviv, dichiarando che anche per gli Stati Uniti Gaza è una "entità ostile". A un primo sguardo, questo significa
che la pace con i palestinesi sarà confinata alla sola Cisgiordania, decretando una separazione - quella tra Ramallah
e Gaza City - che invece alcuni attori arabi stavano cercando di ricomporre soprattutto nelle ultime due settimane.
Mediazione esemplificata,
tra l’altro, dalla rapida visita di Mahmoud Abbas a Riyadh, lo scorso 11 settembre, per parlare con re Abdullah e
affermare che gli accordi della Mecca (quelli che spianarono la strada alla breve avventura del governo di unità
nazionale tra Hamas e Fatah) non sono morti e sepolti. E ai buoni uffici di qualche non ben precisato stato arabo
c’era stato, a Gaza, il passo compiuto da Ismail Haniyeh verso la Jihad Islamica, a cui era stato chiesto di interrompere
il lancio di Qassam verso Sderot e le cittadine israeliane del Negev.
Ora che Gaza è una "entità ostile" per Israele, i margini per soluzioni alternative si restringono al lumicino.
Mentre anche la conferenza di pace di Washington rischia di abortire, visto che Abbas è stato costretto a stigmatizzare
la decisione israeliana come una "punizione collettiva" che renderà ancora più duro l’embargo contro il milione e mezzo
di palestinesi che vivono rinchiusi nella Striscia. Un’accusa che fa seguito, tra l’altro, alle rimostranze sulla dura
operazione che l’esercito israeliano sta compiendo nell’area di Nablus, dove negli scorsi due giorni gli scontri tra
unità speciali e militanti palestinesi hanno già causato tre morti su entrambi i fronti. Neanche la data della conferenza
è, a questo punto, un appiglio sicuro per israeliani e palestinesi. L’ufficio di Abbas ne ha chiesto addirittura un rinvio,
segno che la nebbia sulla riunione di Washington, lungi dal diradarsi, si sta infittendo. Ancor di più, dopo la decisione
su Gaza, arrivata dopo che si erano parzialmente dissolte le nubi che si erano addensate su Israele e su tutto il Medio
Oriente in seguito al misterioso raid dell’aviazione di Tel Aviv sulla Siria. Per decretare che sul fronte nord la
situazione era migliorata, martedì era sceso addirittura in campo il presidente Shimon Peres, duro con l’Iran, ma molto
meno con Damasco nella sua conferenza stampa con i giornalisti esteri. Nel frattempo, il ministro della difesa Ehud Barak
aveva riunito, sempre martedì, i più alti vertici militari per aprire l’altro dossier, quello – appunto - di Gaza.
Risultato: per gli uomini della difesa è meglio rispondere, ora, con mezzi diversi da un’operazione di terra in grande
stile dentro la Striscia. Meglio, per adesso, chiudere – almeno parzialmente – i rubinetti dei servizi che passano da
Israele verso Gaza.
Almeno elettricità e carburante, mentre – per il momento – l’erogazione dell’acqua potabile non sarà interrotta. Una
reazione, la cui paternità evidentemente è di Barak e dei vertici militari, che il gabinetto di sicurezza del governo
israeliano ha approvato e sostenuto ieri all’unanimità. Tutti d’accordo, insomma, sull’idea che l’esercito israeliano non
voglia, per il momento, rientrare in massa dentro Gaza, ma continuare con le incursioni quasi quotidiane nel nord e nell’
estremo sud della Striscia. La risposta, dice la decisione israeliana, è più politica che militare, se sono vere le
indiscrezioni secondo le quali Barak avrebbe detto nel gabinetto di sicurezza di ieri che l’obiettivo è "indebolire Hamas".
Tagliare il consenso popolare, dunque, attorno al governo di Ismail Haniyeh che controlla Gaza, tagliando luce e gas
secondo percentuali che non intacchino gli approvvigionamenti umanitari. Cosa questo voglia dire, nei dettagli, non è
ancora dato di sapere. Non si sa se e quando verrà messa in atto, quanta elettricità e quanto carburante arriveranno,
visto che – dicono le autorità israeliane – si invierà il necessario per far funzionare i generatori degli ospedali.
L’unico elemento che viene ripetuto, è che gli esperti legali faranno attenere Israele alle convenzioni internazionali
che regolano le questioni umanitarie.
Giunge notizia che Israele avrebbe respinto un'offerta di Hamas per un nuovo cessate il fuoco alla vigilia della
riunione di governo di mercoledì scorso al termine della quale è emerso l'annuncio che la Striscia di Gaza è stata
dichiarata "entità nemica". Secondo il quotidiano "Jerusalem Post", sarebbe stato l'ufficio di Ismail Haniyeh a contattare,
tramite una terza parte, fonti diplomatiche a Gerusalemme offrendo una tregua.
Gli sarebbe stato risposto negativamente, facendogli sapere che Israele al momento non aveva intenzione di avere
colloqui con il movimento islamico. All'indomani della dichiarazione del governo israeliano sulla Striscia, Haniyeh
si è incontrato con alcuni rappresentanti della Jihad Islamica e dei Comitati di Resistenza Popolare a Gaza chiedendo
loro un'interruzione nel lancio di Qassam. I gruppi terroristici avrebbero mostrato disponibilità, sottolineando,
tuttavia, il desiderio di conoscere prima la risposta di Israele al proposto cessate il fuoco.
Dal leader del partito della sinistra radicale Meretz, Yossi Beilin, è arrivata una reazione sdegnata per quella che
definisce, se confermata, "una decisione irresponsabile" sia per gli abitanti del Negev occidentale, sia per il caporale
Gilad Shalit, rapito il 25 giugno 2006 al confine della Striscia. Secondo il deputato della sinistra, infatti, non
c'è altra alternativa se non una tregua con il movimento islamico: "Israele non ha altre reali soluzioni, deve raggiungere
un cessate il fuoco con Hamas" ha dichiarato Beilin, aggiungendo che questo negoziato potrebbe avvenire "tramite
una terza parte", parallelamente al "processo diplomatico con l'Olp [ n.d.r.: Organizzazione per la Liberazione della Palestina]".
Rimango scettico.
Indiscrezioni e "voci di popolo" sussurrano che presto, le forze armate israeliane, entreranno quì a Gaza e
che le dichiarazioni qualificative di "entità nemica" indicano una nuova invasione già programmata.
Osservatori locali giudicano questa evenienza come impossibile!
Personalmente, però, " ... già sento i carriarmati, mentre vedo fuggire i bambini terrorizzati ...".
Spero soltanto di avere torto ...
L'Ultimo
appello
da Rafah.
Sono ormai seimila, secondo l’ex ministro dell’informazione del governo palestinese di unità nazionale,
Mustafa Barghouthi, i palestinesi costretti a rimanere dalla parte egiziana del confine di Rafah. Il confine è
chiuso da settimane, da quando le autorità israeliane non hanno più consentito il passaggio tra Gaza ed Egitto.
Ma anche prima che Hamas vincesse lo scontro nella Striscia contro la forza di sicurezza preventiva guidata da
Rashid Abu Shabak, l’uomo di Mohammed Dahlan a Gaza, il valico di Rafah aveva lavorato a singhiozzo, nonostante la
presenza degli osservatori europei, guidati dai nostri carabinieri, che dovevano supervisionare il passaggio del confine.
Solo pochi giorni di apertura, rispetto a una chiusura quasi totale di un valico vitale per gli abitanti di Gaza, visto
che si tratta dell’unico contatto con il resto del mondo. Hamas ha affermato, all'inizio di settembre, ha avviato un
negoziato con gli egiziani per poter riaprire il passaggio di Rafah.
Da settimane, dall’altra parte del valico, in territorio egiziano, sopravvivono migliaia di palestinesi che erano andati
in Egitto, vuoi per trovare i parenti, vuoi (in buona parte) per motivi di salute e che non possono rientrare a Gaza.
Migliaia di persone vivono in situazioni impossibili, con temperature superiori ai 40 gradi, in pieno deserto, senza i
soldi necessari per mangiare, con estrema difficoltà di reperire cibo e acqua. Sono bambini, donne, anziani, tutti civili,
dimenticati dal mondo. Una tragedia annunciata, che il primo Agosto ha avuto la sua prima vittima: Taghreed Mohammed
Al Abed, una donna di 31 anni, malata di cancro. Era andata in Egitto, dal campo profughi di Jabalia, per curarsi.
È morta per le condizioni impossibili di vita al confine di Rafah. Sembra una riedizione di quello che sta succedendo
da mesi al confine tra Iraq e Siria, nella terra di nessuno in cui sono confinati i profughi palestinesi assistiti
dall’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati. Non possono tornare indietro, non possono entrare in Siria: vivono sotto
tende di fortuna, assistiti dall’UNHCR, senza nessuna speranza. Anche loro, dimenticati e invisibili.
Riporto, di seguito, il comunicato emesso in questi giorni da Luisa Morgantini, Vicepresidente del Parlamento Europeo,
su Rafah "scempio di umanità", che possa rimanere, fra queste righe, come monito:
"Anziani, ammalati, bambini, donne e uomini in tutto 4000 palestinesi sono bloccati al valico di Rafah, confine
meridionale della striscia di Gaza con l'Egitto, sotto un sole cocente, con una temperatura di 42 gradi, senza soldi
e con cibo e acqua centellinati. A queste 4000 persone non arriva nessun aiuto umanitario e nessuna assistenza dalle
organizzazioni internazionali o nè dal Governo Egiziano. Le condizioni igieniche e logistiche sul posto sono del tutto
inadeguate e la situazione è ancora più drammatica se si pensa che, tra questi, molti sono degli ammalati di ritorno
dagli ospedali de Il Cairo che chiedono solo di tornare alle proprie case. Chi di loro può permetterselo, passa le notti
negli alberghi più vicini, pagando dei prezzi altissimi. Gli altri sono abbandonati a loro stessi e non possono più
neanche comprare le medicine. Il confine, dopo il ritiro di Israele dalla Striscia nel settembre 2005, era controllato
dalle forze dell'Autorità nazionale palestinese, con l'ausilio di una settantina di osservatori europei. Dal giugno
2006, quando e' stato rapito a Gaza il soldato israeliano Ghilad Shalit, Israele ne ha permesso l'apertura solo un quinto
del tempo, 74 giorni su 365. Dopo i recenti scontri inter-palestinesi, che hanno portato alla vittoria di Hamas a Gaza,
Israele ha deciso di aggravare ulteriormente la crisi, con raid indiscriminati nella Striscia e la chiusura dei valichi
sia per le persone, sia per le merci.
Questa situazione deve finire, ma la Repubblica Egiziana si dice pronta ad aprire la frontiera, unica porta sul mondo,
per il milione e mezzo di palestinesi che vivono a Gaza, soltanto quando tornerà il gruppo di osservatori europei con
l'incarico di sorvegliarla dalla parte palestinese, ignorando, come fanno Israele e la Comunità Internazionale, la
presenza di migliaia di persone che da due settimane vivono in condizioni disperate. Rivolgo questo appello all'Unione
Europea e all'intera Comunità Internazionale affinché non rimangano inerti di fronte all'ennesimo strazio inferto alla
popolazione palestinese, facendo anzi pressioni sul Governo israeliano perché riapra immediatamente tutti i valichi di
confine della Striscia di Gaza, che rinchiudono arbitrariamente e unilateralmente in una gabbia la popolazione civile,
costretta a sopravvivere senza cibo, acqua e con servizi sanitari al collasso. Infine ritengo che far proprio questo
appello, da parte del neo-eletto inviato speciale del Quartetto, Tony Blair, sia un segnale estremamente importante,
un primo passo per ridare credibilità alla sua figura presso l'opinione pubblica palestinese e araba, scettica sull'
imparzialità di uno dei fautori principali della catastrofe irachena e accanito sostenitore dell'aggressiva politica
estera statunitense. La soluzione della tragedia palestinese, che non è una questione solo umanitaria, è nella fine
dell' occupazione militare israeliana. Intanto, però, si agisca subito sulle condizioni di vita quotidiana".
Dentro le Radici della Rabbia
... cinque chilometri a Rafah ...
... quasi al confine ...
... Check Point di Rafah ...
... ultimo posto di controllo ONU prima del confine ...
... ancora pochi metri ...
Repubblica Araba d'Egitto
... oltre la rabbia e fuori da un incubo.
Oltre le radici ...
... della pace!
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