
Le Radici della Rabbia
Un Viaggio tra la disperazione e l'orgoglio di vivere

Autorità Nazionale Palestinese
Territori Palestinesi
Gaza
L'Opinione
di Ninni Raimondi
Il risultato più immediato ed evidente della "Presa di Potere" (molti, quì, lo definiscono un
Colpo di Stato) di Hamas a Gaza è senza dubbio quello di avere trasformato la Striscia
in un vero e proprio poligono di tiro, in cui l’esercito israeliano può esercitarsi,
a piacimento, utilizzando i militanti palestinesi (... e talvolta anche i civili ...) al posto
delle sagome di legno.
Nel periodo compreso tra il 14 giugno (la data in cui Abu Mazen ha dichiarato lo stato
di emergenza nei Territori) e il 5 luglio, dei 51 Palestinesi uccisi dall’esercito
israeliano, di cui almeno 21 civili e tra essi 8 bambini, ben 43 (ovvero l’84% del
totale) erano residenti nella Striscia di Gaza, al pari della stragrande maggioranza
degli oltre 140 feriti registratisi nello stesso periodo.
A ben guardare, del resto, questa escalation di incursioni e di raid del Tzahal (IDF-Israelian
Defence Force [Le Forze Armate Israeliane n.d.r.]) a Gaza
costituisce il più concreto "aiuto" che Israele sta fornendo ad Abu Mazen e al suo
Governo di comodo, se si eccettuano i 30 denari (peraltro di proprietà palestinese ...)
già pagati al Presidente dell’ANP per il sospetto voltafaccia della causa del suo
popolo.
Non sfugga, in tal senso, che le incursioni dell’esercito israeliano, gli arresti e
le uccisioni di militanti avvenute nella West Bank sono state condannate più volte
dal Premier Fayyad in persona in una sua intervista alla Reuters la mattina
del 5 luglio, in quanto, a suo dire, minavano la credibilità del tentativo in corso,
da parte del governo da lui guidato, di disarmare le milizie operanti nei Territori.
In occasione dell’ultimo, sanguinoso raid del Tzahal nella Striscia di Gaza, avvenuto
nel corso della stessa giornata di giovedì (...e che ha provocato la morte di 11 Palestinesi,
di cui due civili e il ferimento di almeno una ventina di persone), né Abu Mazen
né Fayyad hanno invece ritenuto di spendersi nemmeno per una condanna rituale,
lasciando questa incombenza il giorno successivo ad Hazim Abu Shanab, portavoce di
Fatah nella Striscia di Gaza.
Cinquantuno morti e 140 feriti in sole tre settimane, eppure nessuna voce di condanna per
la politica militare aggressiva, molto discutibile, israeliana si è levata
dai governi occidentali, né tanto meno dalla UE o dall' ONU o dal "Quartetto"; neanche
i rappresentanti del Governo italiano, gli "amici italiani", durante il loro avvicendarsi,
nelle recentissime visite in Israele hanno ritenuto di chiedere conto a Olmert di tanta
ferocia e brutalità.
A tal proposito, basterà dare uno sguardo, con il dovuto stupore, all’ultima
dichiarazione ufficiale del portavoce del Segretario Generale dell'ONU sugli scontri a
Gaza, rilasciata il 6 luglio, in cui si richiamano "le parti a fare il massimo per
proteggere i civili e rispettare il diritto internazionale", ma solo ai Palestinesi
viene richiesto di cessare il lancio di razzi Qassam.
Mi chiedo e ci chiediamo: Non sarebbe stato più corretto e
più aderente alla realtà dei fatti richiedere, primariamente, la cessazione di ogni
incursione israeliana e la fine dello strangolamento di Gaza?
Misteri della politica.
Anche questa, in fondo, è un conseguenza della vittoria di Hamas a Gaza: Il totale
azzeramento di ogni reazione della comunità internazionale di fronte al genocidio
(definizione di Nicola Sarkozy) o, se vogliamo, al "genostillicidio" in atto oggi nella
Striscia, il tacito via libera dato a Israele verso la resa dei conti finale con
Hamas.
Eppure ragioni di doglianza per il modus operandi di Israele nei Territori ce ne
sarebbero, eccome.
Basterebbe pensare ai circa 6.000 Palestinesi bloccati in Egitto a causa della chiusura
da parte degli Israeliani dell’International Crossing Point di Rafah e della conseguente
impossibilità di ritornare nella Striscia di Gaza e ai 12 Palestinesi morti a causa
del caldo, dei disagi e del deterioramento delle loro già precarie condizioni di salute:
tra questi vi era anche la 30enne Taghreed Mohammad Abid, madre di 5 figli, malata di
cancro eppure costretta a restare bloccata per ben 20 giorni a Rafah, nonostante
l’impegno e le proteste di vari gruppi umanitari.
Anche questi morti pesano come un macigno sulla coscienza del popolo ebraico e
dovrebbero pesare anche sulla coscienza di quanti continuano ad asseverare la colossale
menzogna del "ritiro" israeliano dalla Striscia di Gaza.
Oppure basterebbe pensare alla tragedia nella tragedia rappresentata dall’uccisione di
bambini e ragazzini palestinesi ad opera del Tzahal, 11 solo nel mese di giugno, 798
dall’inizio della seconda Intifada, 198 di età inferiore ai 12 anni, in gran parte
uccisi da colpi di arma da fuoco alla testa e/o al petto, chiaro indice di questa politica
criminale basata sul principio dello "sparare per uccidere"
in ogni circostanza e senza alcun riguardo o cautela.
Oppure, ancora, si potrebbe dar conto dell’incidente – riportato dal quotidiano Ha’aretz
– che ha visto coinvolto il personale paramedico palestinese di un
ambulanza accorso ad un posto di sicurezza di Hamas per evacuare un ferito: secondo
le testimonianze, gli infermieri sono stati trattenuti per tre ore e alcuni di essi
sono stati utilizzati dai soldati israeliani come scudi umani per allontanarsi dall’area.
L’esercito israeliano sta conducendo un’inchiesta sull’accaduto
.
Si tratta dell’ennesimo attacco illegale condotto dall’IDF contro il personale della
Mezzaluna rossa, che segue – nei primi sei mesi di quest’anno – a 26 attacchi diretti
contro ambulanze e a 222 incidenti in cui ai mezzi di soccorso palestinesi è stato
impedito o ritardato il passaggio ai vari check-points o posti di blocco; è appena il
caso di ricordare che, dall’inizio della seconda Intifada al 20 maggio del 2007, 38
ambulanze sono state distrutte e 142 gravemente danneggiate, mentre 25 medici e
infermieri sono stati uccisi e 510 feriti dal fuoco del Tzahal.
Uno dei fatti più gravi, tuttavia, sul quale intendo soffermarmi, è
rappresentato dal ferimento di un cameraman palestinese nel corso degli scontri
avvenuti nel campo profughi di Bureij, nella zona centrale di Gaza.
E’ successo, infatti, che Imad Ghanem, un 21enne cameraman della tv Al-Aqsa, il network
televisivo di Hamas, è stato ferito gravemente alle gambe dai soldati del Tzahal mentre
svolgeva il suo lavoro e in particolare, mentre stava riprendendo (ironia della sorte!)
l’evacuazione di alcuni militanti palestinesi feriti dal fuoco dei tank israeliani.
Ricoverato in ospedale (con qualche difficoltà, come si vedrà), a Imad sono state amputate
entrambe le gambe!
L’episodio ha suscitato molta emozione e ha provocato una vibrata protesta da parte
della Federazione internazionale dei Giornalisti, anche perché l’accaduto è stato
documentato da un altro cameraman della tv satelitare araba Al-Jazeera, con un video
davvero impressionante e drammatico.
Secondo la portavoce dell’esercito israeliano, maggiore Avital Leibowitch, il povero
Imad era un "obiettivo legittimo", in quanto era insieme ai militanti di Hamas che
sparavano contro le forze israeliane ed era distante dagli altri giornalisti che
riprendevano gli scontri, ed inoltre non indossava alcun vestito o simbolo di alcun
genere atto a identificarlo come un membro della stampa e la sua telecamera poteva
benissimo essere un’arma da fuoco: da ciò deriva, of course, che l’IDF non ha in
previsione alcuna inchiesta sui fatti.
Ma per stabilire che si tratta di una scusa banale e un po' campata in aria, basta
dare un’occhiata al filmato diffuso dall'emittente satellitare Al Jazeera: il cameraman
era in campo aperto, la telecamera era
accanto a lui, perfettamente visibile anche a un cieco e non solo a un esercito che,
si presume, sia in possesso dei normali mezzi di avvistamento e puntamento.
E, soprattutto, dal video si rileva chiaramente come il Palestinese venga colpito da
almeno due colpi alle gambe quando giaceva ferito per terra, mentre la versione più
lunga del filmato, diffusa dal sito web della BBC, mostra come i Palestinesi che
tentavano di soccorrere il cameraman abbiano dovuto più volte desistere, a causa del
fuoco dei soldati israeliani che impediva di portare via il ferito.
E’ vero, Imad Ghanem non recava con sé alcun segno distintivo che lo identificasse come
appartenente alla stampa.
La gentile portavoce dell’IDF, tuttavia, omette di ricordare (al mondo, a sé stessa e
ai suoi commilitoni) che un principio basilare del diritto umanitario è il principio
della distinzione, in base al quale Israele avrebbe l’obbligo, nel corso dei raid
militari, di distinguere tra combattenti e civili, essendo gli attacchi contro questi
ultimi, chiaramente, vietati; in caso di dubbio, deve presumersi che le persone in
questione siano civili.
Ciò varrebbe da solo, dunque, a qualificare il comportamento dei soldati israeliani come
illegale, per non parlare dei colpi d’arma da fuoco sparati contro un nemico steso in
terra e chiaramente incapace di nuocere, comportamento che integra la fattispecie del
chiaro crimine di guerra ed è vietato, peraltro, dalle pur permissive regole d’ingaggio
del Tzahal.
Come se poi i "segni distintivi" costituiscano una garanzia di incolumità per i
giornalisti che operano nei Territori occupati!
In agosto, due giornalisti palestinesi dell’agenzia Reuters sono
miracolosamente scampati ad un attacco da parte di un aereo della IAF, che aveva sparato
due missili contro la Land Rover su cui viaggiavano e ciò nonostante il mezzo (di
colore bianco!) recasse le scritte "Reuters" e "Press" a stampatello e in caratteri
cubitali.
Questo per non tornare ancora più indietro nel tempo e ricordare il giornalista inglese
James Miller, ucciso nel 2003 a Rafah anche se indossava un giubbotto con la scritta
"Press" e teneva in mano una bandiera bianca, o il nostro Raffaele Ciriello, ucciso
da soldati israeliani che – secondo la testimonianza di Amedeo Ricucci del tg1 –
"avevano sparato senza motivo".
A partire dal settembre del 2000, ben 15 giornalisti
hanno pagato con la vita il loro coraggio e l’amore per il loro lavoro, la loro
testimonianza, la loro ricerca della verità sulla ferocia e la brutalità dell’occupazione
israeliana; più di 500 loro colleghi sono rimasti feriti.
Ha dunque ben ragione la Federazione internazionale dei Giornalisti a parlare di un
"violento e brutale esempio del colpire deliberatamente un giornalista", l’ennesimo
attacco di Israele contro la libera informazione e contro i professionisti che cercano
di garantirla a sprezzo del pericolo.
Eppure per la comunità internazionale non v’è alcuna ragione di denunciare, di
protestare, oppure di sanzionare Israele.
Così i "Rappresentanti" del nostro Governo possono, tranquillamente, andare in Israele e abbracciare nuovamente l’amico
Olmert, trovando appena il tempo di chiedere il rilascio, "senza condizioni", del
caporale Gilad Shalit; così Ban Ki-Moon può limitarsi a chiedere che si fermi il lancio
di razzi Qassam contro il territorio israeliano.
Tutto giusto e sacrosanto, ma stiamo ancora aspettando che qualcuno
chieda con fermezza che cessino i raid militari israeliani contro Gaza e la West Bank;
che si denuncino i brutali crimini di guerra del Tzahal nei Territori occupati, che
termini finalmente la devastazione della Palestina e il quotidiano assassinio dei suoi
figli.
La lenta ma costante opera di annessione di buona parte della West Bank da parte di
Israele si accompagna ad un’altrettanta inesausta opera di "pulizia etnica" dei territori
interessati, con una tecnica subdola e strisciante che si attua soprattutto,
attraverso un meccanismo giornaliero di deumanizzazione e di
abusi, sia burocratici sia militari, piuttosto che attraverso un vero e proprio
trasferimento forzato, il cui principale propugnatore resta Avigdor Lieberman.
Ciò è particolarmente evidente a Gerusalemme est, in cui l’opera di alterazione degli
equilibri demografici e di giudaizzazione della città si attua attraverso quattro
strumenti principali:
1) l’isolamento fisico di Gerusalemme est dal resto della West Bank, attuata
principalmente a mezzo del muro di "sicurezza", che rende oltremodo difficile e penoso
l’accesso ai servizi più basilari quali la sanità e l’educazione, nonché il
raggiungimento del posto di lavoro per molti residenti palestinesi;
2) la palese discriminazione tra arabi ed ebrei per quanto attiene le espropriazioni, i
permessi per costruire nuove abitazioni, le demolizioni;
3) la diseguale distribuzione del budget municipale tra le due parti della città,
con negative conseguenze per i servizi e le infrastrutture destinate alla fruizione
della popolazione araba;
4) la revoca della cittadinanza e dei benefici sociali collegati, per i Palestinesi
che restano all’estero per almeno 7 anni o che non riescono a provare che il centro
della loro vita e dei loro interessi è a Gerusalemme.
Quest’ultimo strumento è applicato in un sempre crescente numero di casi, come segnalato
recentemente da B’tselem, secondo cui, solo nel 2006, i Palestinesi a cui è stato
revocato il permesso di residenza e che sono stati espulsi effettivamente dalla città
sono stati ben 1.363.
Il pretesto più comune usato a tal fine – secondo l’ong israeliana – consiste nel
denunciare il possesso da parte dei Palestinesi di un passaporto straniero, il che
permette la revoca del loro status di "residenti permanenti" in Israele.
Ciò segnala una palese discriminazione razziale a danno dei Palestinesi, dato che un
cittadino israeliano normalmente può possedere diversi passaporti e trascorrere la sua
vita all’estero senza che alcuno si sogni di mettere in discussione il suo status di
cittadino di Israele.
E questo è quello che sappiamo (dalle ong e/o dalla stampa estera, perché in Italia i
media si occupano di tutt’altro).
Quello che è meno noto, si potrebbe dire sconosciuto ai più, è il fenomeno della pulizia
etnica all’interno dello Stato di Israele, di cui non si occupano nemmeno quei fenomenali
difensori dei diritti umani quali Amnesty o, soprattutto, Human Rights Watch, così
intenti a bastonare il mondo arabo (ed anche giustamente) per le numerosi violazioni
dei diritti ma, di tutta evidenza, un po’ distratti quando si discute di quel bastione
di civiltà che è lo Stato israeliano.
Così può accadere, quietamente e tranquillamente, che uno schieramento inusitato di 1.500
poliziotti e addetti vari, con l’ausilio di cinque bulldozer, procedano (come è accaduto
lunedì scorso) alla demolizione di 25 casupole e baracche di alluminio nei villaggi
beduini di Um Al-Hiran e di A-Tir, nel deserto del Negev, lasciando senza un tetto circa
150 persone.
Succede infatti che la Israel Land Administration (ILA) abbia deciso di distruggere i due
villaggi (ufficialmente non riconosciuti) e di trasferirne gli abitanti, per far posto ad
una comunità ebraica denominata Hiran, che dovrà essere stabilita sull’area.
E, tanto per aggiungere alla vicenda già triste un ulteriore tocco di brutalità, i poliziotti,
al fine di accelerare le operazioni,
hanno impedito alle donne del villaggio di portar fuori da sé i loro bambini, ma hanno
afferrato i box con i bimbi dentro e hanno provveduto personalmente alla bisogna.
Non si perde del tempo preziosissimo con dei pezzenti e i loro bambini piagnucolosi, svegliati
all’improvviso, terrorizzati, e trascinati fuori dalla loro casa!
Secondo Adalah, un’organizzazione per la tutela dei diritti delle minoranze arabe in
Israele, i residenti del villaggio erano lì da ben 51 anni; correva l’anno 1956, infatti,
quando questi poveri Beduini furono trasferiti in quel sito, mentre la terra che
originariamente possedevano veniva trasferita al kibbutz Shoval.
La ILA, nell’agosto del 2001, predispose un rapporto sulla creazione di nuove comunità,
e tra queste vi era per l’appunto Hiran, la cui istituzione fu approvata dal governo
israeliano nel 2002; successivamente, nel 2004, lo Stato richiese un’ordinanza giudiziale
di sgombero, sostenendo che i Beduini di Um Al-Hiran e di A-Tir occupavano la terra di
proprietà statale senza alcun permesso.
Ma non erano stati loro a trasferirli là?
Il rapporto ILA del 2001 faceva riferimento ai Beduini residenti nell’area, rubricandoli
alla voce "problemi particolari", che avrebbero potuto pregiudicare il sorgere della
nuova comunità ebraica.
Ma non è stato poi un problema così "particolare" e difficile da risolvere, è bastato
schierare un numero sufficiente di addetti allo sgombero e di poliziotti (1.500!), è
bastato afferrare e buttare fuori dalle case gli effetti personali dei residenti, ivi
compresi i box con i bambini dentro.
Benvenuti in Israele!
Fine Quinta Puntata